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Mary Loú Hill. Peace, love, empathy.

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29 marzo, 2020

Confine

“Il valore delle cose lo si capisce solo quando le si perdono”

Ormai è giorni che sono chiusa in casa in isolamento e mai come ora sto capendo l’importanza delle piccole cose, quelle che di solito diamo tanto per scontato e che mai penseremmo che ci potrebbero essere tolte. Di quei piccoli dettagli che sembrano insignificanti e che invece sono proprio quelli a dare senso alle nostre esistenze, perché le rendono uniche: come i quadri d’autore e le loro anonime riproduzioni.
Mi manca uscire di casa quando voglio, respirare aria fresca e camminare per un po’ sul lungolago, osservando le piccole barche che tagliano l’acqua, godendomi l’aria fresca e pungente mentre ascolto Mystery of love di Sufjan Stevens nelle cuffiette. Mi manca passare i pomeriggi al barettino in centro con Maria, sorseggiando aperitivi e divorando la salsina piccante che tanto amiamo, spettegolando del mondo. Mi manca fumare sulle scale del quinto piano di casa di Marghe, durante i nostri flussi di pensieri filosofici condivisi, o lamentarmi delle piccolezze con Fede, mentre passeggiamo per ore senza mai avere una meta.
Sono stanca di passare le ore in totale tensione, in equilibrio su una fune tesa tra una valle infuocata, mentre continuo ad aggiornarmi sui vari giornali online sulla situazione in Italia, temendo il crollo degli ospedali, delle borse europee, della mia mente. Ho i nervi distrutti dalla pressione che mi getto addosso da sola e mi domando per quanto tempo sarò ancora in grado di resistere: i numeri mi mettono angoscia, e così anche i muri di questa casa, che quasi sembrano intrappolarmi in una voragine di claustrofobia. 
Mi manca la scuola. Mai nella vita avrei lontanamente pensato che un posto di merda come quello potesse provocarmi della nostalgia. Però mi manca prepararmi di fretta la mattina e correre verso l’albero davanti all’entrata di scuola e ritrovarmi con tutte le mie compagne di classe a fumare mezza sigaretta prima di affrontare cinque ore di inferno. Mi manca ridere e scherzare con loro mentre ci tiriamo pezzi di carta addosso, o dormire nelle lezioni noiose, o litigare per chi per prima andrà in bagno nell’ora di diritto. È che pensavo di provare queste cose a maturità finita, quando ci si saluta con la consapevolezza di non rivedersi mai più, non ora, non in questa situazione surreale e disastrosa, non così. 
Non immaginavo di ritrovarmi senza le persone, le abitudini e i luoghi che ho sempre dato per scontato, fin da quando solo nata: non ho mai dubitato di essere fortunata, di trovarmi dalla parte giusta del mondo, ma non sapevo come ci si sentisse a non esserlo. Non sapevo come fosse vivere con l’incertezza, la paranoia, il tremore continuo di non sapere cosa accadrà.
Mi manca passare l’intervallo davanti alle macchinette con Lorenzo, ore e ore perse a chiacchierare di cazzate, e ascoltare le voci estranee degli altri, guardando mille occhi di infinite sfumature diverse. Mi manca litigare con l'idiota nei corridoi, mandarlo a quel paese e tenergli in broncio per giorni interi, senza rendermi conto che se mi incazzo sempre così tanto, evidentemente è perché gli voglio un bene sconsiderato, anche se non voglio ammetterlo. E poi la campanella dell’ultima ora, la leggerezza di una mattinata appena finita, e i pettegolezzi infiniti con Marghe e Franci, prima di attraversare sulla strada senza strisce e prendere di corsa il pullman per tornare a casa.
Mi manca il colore del cielo senza nuvole in primavera, o dei fiori del giardino sotto casa, con quell’odore dolce e intenso di chi non ha peccato, o dell’asfalto grigio attraversato da quei veicoli tipici di ogni città trafficata e a cui mai avrei pensato di affezionarmi. Mi manca poter vedere le diverse variazioni cromatiche delle pelli della gente, che parlano e ridono insieme simultaneamente, che si guardano e si sfiorano, senza sapere quanto sono fortunate a poterlo fare.
Mi sono sempre lamentata di un sacco di cose, e proprio ora che non le ho, capisco il loro valore, e la fortuna che ho avuto nel possederle. Quanto è importante toccare le persone che amiamo? Come quando ci si ammala e ci si rende conto di quanto sia preziosa la salute, ma appena guariamo già ce ne siamo dimenticati.
Non mi piace questa situazione. Non mi piace questo virus. Non mi piace la mia testa quando è messa così tanto sotto pressione. Non mi piace come ragiona la gente, troppo egoista per pensare anche al bene degli altri, oltre a quello personale. Non mi piace avere paura. È come stare in apnea in un abisso oscuro, senza sapere se riuscirò mai a raggiungere la superficie.
Ho paura che tutto degeneri. Ho paura per la mia famiglia e per i miei amici, di doverli vedere morire come animali senza che abbiano potuto a ricevere visite, per colpa di gente che non è riuscita a rinunciare ad una domenica sugli sci. Per colpa di un’intera classe politica e di evasori fiscali che hanno reso la sanità pubblica italiana un mucchietto di briciole, nonostante il suo potenziale, e che ora si incolpano a vicenda invece che trovare una soluzione.
La verità è che non posso fare altro che affidarmi al fato, al destino, e sperare con tutta l’anima marcia che ho, che non succeda nulla, che non si arrivi a dover fare delle scelte per le cure, che non debba vedere mio padre scartato, magari per eccesso di un anno o di una pastiglia, e abbandonato dallo stesso Stato che giura di proteggerci, di farci da armatura. Che il mio cuore non si rompa in infiniti frammenti solo per una questione di statistica, di numeri.
Ho paura per te, che non so nemmeno dove sei e con chi, cosa ne pensi di tutto questo disastro, come ha reagito la tua testa davanti alle notizie, se sei ancora stabile oppure le paranoie ti hanno già imprigionato. Se qualcuno a cui vuoi bene è in pericolo o se invece sei tranquillo e senza pensieri, se ti stai proteggendo oppure te ne freghi e continui a uscire di casa con i tuoi amici. Ho paura perché so che sei piccolo e indifeso, e non oso immaginare come stai messo, in che condizioni di salute sei, dopo tutte le cose di cui ti sei fatto in questi anni. Non so nemmeno se avresti le forze di affrontarlo, un virus così, ridotto come sei, perso in ombre che forse nessuno può capire, nemmeno te.
Ho paura che tu abbia paura, perché mi uccide l’idea della tua sofferenza. E ho paura per me, perché per quanto io sia giovane, non sono così sicura di essere esente da questa ombra oscura. O che tu lo sia.
E mi fa paura morire. Per mille ragioni. Mi fa paura non averti salutato, P., un piccolo ultimo cenno prima di non vederti più. Non averti detto tutto ciò che sento. Tutto ciò che mi è successo, da quando abbiamo smesso di parlarci.
Forse è questo il problema, l’origine del mio malessere, della mia angoscia. Non il morire, ma morire senza te che mi tieni la mano. Senza i tuoi grandi occhioni scuri che mi rassicurano, anche se hanno visto più demoni dei miei. Senza il mio Xanax.
Eternamente tua,
En.

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