Ormai è
giorni che sono chiusa in casa in isolamento e mai come ora sto capendo l’importanza
delle piccole cose, quelle che di solito diamo tanto per scontato e che mai
penseremmo che ci potrebbero essere tolte. Di quei piccoli dettagli che
sembrano insignificanti e che invece sono proprio quelli a dare senso alle
nostre esistenze, perché le rendono uniche: come i quadri d’autore e le loro anonime
riproduzioni.
Mi manca
uscire di casa quando voglio, respirare aria fresca e camminare per un po’ sul
lungolago, osservando le piccole barche che tagliano l’acqua, godendomi l’aria
fresca e pungente mentre ascolto Mystery
of love di Sufjan Stevens nelle cuffiette. Mi manca passare i pomeriggi al
barettino in centro con Maria, sorseggiando aperitivi e divorando la salsina
piccante che tanto amiamo, spettegolando del mondo. Mi manca fumare sulle scale
del quinto piano di casa di Marghe, durante i nostri flussi di pensieri filosofici
condivisi, o lamentarmi delle piccolezze con Fede, mentre passeggiamo per ore
senza mai avere una meta.
Sono stanca
di passare le ore in totale tensione, in equilibrio su una fune tesa tra una
valle infuocata, mentre continuo ad aggiornarmi sui vari giornali online sulla
situazione in Italia, temendo il crollo degli ospedali, delle borse europee,
della mia mente. Ho i nervi distrutti dalla pressione che mi getto addosso da
sola e mi domando per quanto tempo sarò ancora in grado di resistere: i numeri
mi mettono angoscia, e così anche i muri di questa casa, che quasi sembrano
intrappolarmi in una voragine di claustrofobia.
Mi manca la
scuola. Mai nella vita avrei lontanamente pensato che un posto di merda come
quello potesse provocarmi della nostalgia. Però mi manca prepararmi di fretta
la mattina e correre verso l’albero davanti all’entrata di scuola e ritrovarmi
con tutte le mie compagne di classe a fumare mezza sigaretta prima di
affrontare cinque ore di inferno. Mi manca ridere e scherzare con loro mentre
ci tiriamo pezzi di carta addosso, o dormire nelle lezioni noiose, o litigare
per chi per prima andrà in bagno nell’ora di diritto. È che pensavo di provare
queste cose a maturità finita, quando ci si saluta con la consapevolezza di non
rivedersi mai più, non ora, non in questa situazione surreale e disastrosa, non
così.
Non immaginavo
di ritrovarmi senza le persone, le abitudini e i luoghi che ho sempre dato per
scontato, fin da quando solo nata: non ho mai dubitato di essere fortunata, di trovarmi
dalla parte giusta del mondo, ma non sapevo come ci si sentisse a non esserlo.
Non sapevo come fosse vivere con l’incertezza, la paranoia, il tremore continuo
di non sapere cosa accadrà.
Mi manca
passare l’intervallo davanti alle macchinette con Lorenzo, ore e ore perse a
chiacchierare di cazzate, e ascoltare le voci estranee degli altri, guardando
mille occhi di infinite sfumature diverse. Mi manca litigare con l'idiota nei
corridoi, mandarlo a quel paese e tenergli in broncio per giorni interi, senza
rendermi conto che se mi incazzo sempre così tanto, evidentemente è perché gli
voglio un bene sconsiderato, anche se non voglio ammetterlo. E poi la
campanella dell’ultima ora, la leggerezza di una mattinata appena finita, e i
pettegolezzi infiniti con Marghe e Franci, prima di attraversare sulla strada senza strisce
e prendere di corsa il pullman per tornare a casa.
Mi manca il
colore del cielo senza nuvole in primavera, o dei fiori del giardino sotto casa,
con quell’odore dolce e intenso di chi non ha peccato, o dell’asfalto grigio
attraversato da quei veicoli tipici di ogni città trafficata e a cui mai avrei
pensato di affezionarmi. Mi manca poter vedere le diverse variazioni cromatiche
delle pelli della gente, che parlano e ridono insieme simultaneamente, che si
guardano e si sfiorano, senza sapere quanto sono fortunate a poterlo fare.
Mi sono
sempre lamentata di un sacco di cose, e proprio ora che non le ho, capisco il
loro valore, e la fortuna che ho avuto nel possederle. Quanto è importante
toccare le persone che amiamo? Come quando ci si ammala e ci si rende conto di
quanto sia preziosa la salute, ma appena guariamo già ce ne siamo dimenticati.
Non mi
piace questa situazione. Non mi piace questo virus. Non mi piace la mia testa
quando è messa così tanto sotto pressione. Non mi piace come ragiona la gente,
troppo egoista per pensare anche al bene degli altri, oltre a quello personale.
Non mi piace avere paura. È come stare in apnea in un abisso oscuro, senza
sapere se riuscirò mai a raggiungere la superficie.
Ho paura
che tutto degeneri. Ho paura per la mia famiglia e per i miei amici, di doverli
vedere morire come animali senza che abbiano potuto a ricevere visite, per
colpa di gente che non è riuscita a rinunciare ad una domenica sugli sci. Per
colpa di un’intera classe politica e di evasori fiscali che hanno reso la
sanità pubblica italiana un mucchietto di briciole, nonostante il suo
potenziale, e che ora si incolpano a vicenda invece che trovare una soluzione.
La verità è
che non posso fare altro che affidarmi al fato, al destino, e sperare con tutta
l’anima marcia che ho, che non succeda nulla, che non si arrivi a dover fare
delle scelte per le cure, che non debba vedere mio padre scartato, magari per
eccesso di un anno o di una pastiglia, e abbandonato dallo stesso Stato che
giura di proteggerci, di farci da armatura. Che il mio cuore non si rompa in
infiniti frammenti solo per una questione di statistica, di numeri.
Ho paura
per te, che non so nemmeno dove sei e con chi, cosa ne pensi di tutto questo
disastro, come ha reagito la tua testa davanti alle notizie, se sei ancora
stabile oppure le paranoie ti hanno già imprigionato. Se qualcuno a cui vuoi
bene è in pericolo o se invece sei tranquillo e senza pensieri, se ti stai
proteggendo oppure te ne freghi e continui a uscire di casa con i tuoi amici. Ho
paura perché so che sei piccolo e indifeso, e non oso immaginare come stai
messo, in che condizioni di salute sei, dopo tutte le cose di cui ti sei fatto
in questi anni. Non so nemmeno se avresti le forze di affrontarlo, un virus
così, ridotto come sei, perso in ombre che forse nessuno può capire, nemmeno te.
Ho paura
che tu abbia paura, perché mi uccide l’idea della tua sofferenza. E ho paura
per me, perché per quanto io sia giovane, non sono così sicura di essere esente
da questa ombra oscura. O che tu lo sia.
E mi fa
paura morire. Per mille ragioni. Mi fa paura non averti salutato, P., un
piccolo ultimo cenno prima di non vederti più. Non averti detto tutto ciò che
sento. Tutto ciò che mi è successo, da quando abbiamo smesso di parlarci.
Forse è questo
il problema, l’origine del mio malessere, della mia angoscia. Non il morire, ma
morire senza te che mi tieni la mano. Senza i tuoi grandi occhioni scuri che mi
rassicurano, anche se hanno visto più demoni dei miei. Senza il mio Xanax.
Eternamente tua,
En.